venerdì 27 agosto 2010

L'ULIVISMO È LA CAUSA (NON IL RIMEDIO) DEI MALI DELLA SINISTRA

da Ragionpolitica.it del 27 agosto 2010

Quando manca la «cosa», cioè la sostanza, rimangono i nudi nomi. Ed ecco allora che il segretario del Pd, un partito che già da lunga pezza ha divorziato dalla politica e si presenta oggi come un puro aggregato della nomenklatura di Ds e Margherita, tira fuori dal cassetto impolverato della memoria del centrosinistra la parola magica. Quella che dovrebbe, per il fatto stesso di essere pronunciata, risolvere di colpo i giganteschi problemi della gauche nostrana: Ulivo. Cinque lettere che nell'immaginario collettivo del popolo di sinistra vogliono dire la vittoria del '96, l'aprile rosso raccontato da Nanni Moretti, le piazze stracolme di bandiere e di gente festante, i post-comunisti che conquistano il potere, il sogno di una lunga e indisturbata stagione di governo. E soprattutto vogliono dire Romano Prodi, il padre di quell'esperienza politico-botanica che tanta nostalgia suscita ancora nell'ormai disilluso elettorato di sinistra.


Già, Prodi. Come poteva il discepolo di Dossetti, cioè di colui che fece dell'Ulivo una cultura e una coltura politica piantandone uno beneaugurante nelle terre del suo ritiro di Montesole, rimanere silente di fronte alla missiva del segretario del Pd? Non poteva. E infatti il Professore ha preso carta e penna e ha scritto al Messaggero per rallegrarsi del fatto che finalmente, dopo 12 anni, l'ulivismo venga nuovamente proposto come stella polare per tracciare la rotta del centrosinistra che verrà. Scrive Prodi: «Dal 1998 la coltura dell'Ulivo è stata ritenuta non più remunerativa per il riformismo italiano ed è progressivamente scomparsa dai registri della nostra politica. Mi ha destato quindi una piacevole sorpresa leggere che Bersani ha deciso di riprenderne la coltivazione, facendone un punto di riferimento per rimettere in ordine i registri dell'azienda italiana, messi in grave difficoltà dalle male organizzate tecniche agrarie succedutesi nel frattempo».


Punto e fine. Proposte concrete? Zero. Idee programmatiche? Nessuna. Una visione dell'Italia? Idem con patate. Tanto per Bersani quanto per Prodi basta dire la taumaturgica parolina e tutto viene da sé. Che cosa sia poi precisamente questo nuovo Ulivo non è dato saperlo, e forse nessuno lo saprà mai, visto che qui ci muoviamo nel campo del più radicale nominalismo, l'unico appiglio a cui oggi la sinistra si può aggrappare per evitare di fare i conti col suo vuoto identitario, con il suo non-essere politico, con la crisi nella quale è sprofondata in questi ultimi anni. Dire «Ulivo» è l'estremo tentativo di scacciare l'horror vacui che alberga nella mente di tanti esponenti del Pd e degli altri partiti della gauche italiana.


Ma la soluzione, in questo come in tanti altri casi, è peggiore del male. Anzi, potremmo dire che, a ben vedere, Bersani pensa di curare il male con il male stesso. Come non riconoscere, infatti, che proprio l'ulivismo è stato, con i suoi presupposti di fondo, all'origine della consunzione politica della sinistra e della sua riduzione a mero aggregato di forze tenute insieme soltanto dall'antiberlusconismo? Ha scritto don Gianni Baget Bozzo nel suo saggio su Giuseppe Dossetti: «Che cosa rappresentava nel '96 Romano Prodi, se non l'uomo indicato da Dossetti, cioè da colui che aveva, con la sua autorità spirituale, delegittimato la nuova maggioranza berlusconiana del '94 e indicato nella lotta contro di essa il fondamento del paese? Era stato il dossettismo a creare le basi di una nuova guerra civile italiana: quella tra una maggioranza democratica, votata dal popolo, e la Costituzione repubblicana... Dossetti riuscì a dare vita ad una maggioranza politica fondata sul principio che forze anticostituzionali erano in parlamento e che la Costituzione doveva difendere la democrazia dando vita ad un partito fondato su di essa. L'Ulivo fu appunto questo». E concludeva: «L'Ulivo voleva dire che dalla terra nasceva ora un nuovo germe, che era la medesima cosa dell'unità popolare originaria contro il fascismo».


L'eco di questa prospettiva si sente chiaramente in molti passaggi della lettera di Bersani, soprattutto quando egli parla della necessità di dare vita ad una «alleanza democratica capace di riaffermare i principi costituzionali» per fermare la deriva «populista» del presidente del Consiglio. Ma se almeno Prodi aveva dalla sua, nel '96, la carta della novità, non si capisce perché oggi Bersani, dopo che la formula delle macchine da guerra in mera funzione antiberlusconiana si è rivelata fallimentare e ha mostrato tutte le sue esiziali conseguenze per la sinistra stessa, la riproponga come se essa fosse foriera di magnifiche sorti e progressive per il Pd & CO. L'unica spiegazione possibile è che questa del segretario sia veramente la mossa della disperazione tipica di chi ha perduto la rotta e non sa più da che parte andare.

Gianteo Bordero

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