da Ragionpolitica.it del 16 giugno 2009
La tregua è finita, andate in guerra. Neanche il tempo di conoscere l'esito dei ballottaggi amministrativi di domenica e lunedì prossimi ed ecco che all'interno del Partito Democratico si aprono le danze in vista del congresso di ottobre. Un congresso che ha tutta l'aria di essere il momento della resa dei conti finale non tanto tra ex Ds ed ex Margherita, quanto tra i duellanti di sempre della sinistra italiana: Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Il primo ha annunciato il suo sostegno a Pierluigi Bersani, salvo mettere in campo la sua disponibilità, come extrema ratio, in caso di emergenza, ad assumere la guida del partito. Il secondo è tornato a farsi sentire con una lettera su Facebook nella quale, in sostanza, rivendica la necessità di riprendere il cammino iniziato col Lingotto (e indebolito dal logoramento della sua leadership dopo la sconfitta alle elezioni politiche), dando continuità all'attuale segreteria e magari innervandola di giovani promesse del partito come Debora Serracchiani e amministratori affermati come Sergio Chiamparino. Mentre l'ex presidente del Consiglio ha stretto alleanza con Enrico Letta, l'ex segretario del Pd ha convocato per il 2 di luglio, al Capranica di Roma, un incontro con i suoi fedelissimi ed estimatori per «rafforzare e rilanciare» il suo originario progetto, quello del partito riformista a vocazione maggioritaria, «senza correnti e personalismi, senza vecchie e paralizzanti logiche figlie di un tempo superato».
Dietro il rinnovarsi dell'eterno scontro personale tra D'Alema e Veltroni, però, si nasconde anche la radicale divergenza di progetti strategici: è cosa nota che Baffino lavori per rimettere in piedi un ampio sistema di alleanze che guardi, oltre che alla nuova sinistra di Vendola (sponsorizzata da Bertinotti), anche all'Udc di Pier Ferdinando Casini - un dato, questo, confermato appunto dal patto stretto con Letta, maggiore sostenitore dell'intesa con il leader centrista -, mentre Walter punta in primis alla riproposizone del progetto Pd così come inaugurato due anni or sono con il discorso del Lingotto. Ha scritto l'ex sindaco di Roma nella lettera pubblicata su Facebook: «Se ritengo opportuno, in questo momento, tornare a dire quel che penso, è perché avverto che il nostro progetto, il progetto del Partito Democratico, è messo in discussione. E' perché sento che attorno ad esso si muovono richiami antichi». Non bisogna andar lontano per capire a chi si riferisce Veltroni.
Tra l'altro - sia detto per inciso - è possibile leggere anche alla luce di questa battaglia tra D'Alema e Veltroni le dichiarazioni del primo in merito alla necessità, per l'opposizione, di farsi trovare pronta nel caso in cui, prossimamente, avessero luogo quelle «scosse» (di cui egli ha parlato domenica nel corso della trasmissione di Lucia Annunziata, In Mezz'ora) tali da mettere in discussione la tenuta dell'esecutivo Berlusconi. Se la speranza di D'Alema, esperto in giochi di palazzo come quelli che lo portarono al governo dopo la caduta di Prodi nel 1998, è quella di riuscire a mettere insieme in parlamento - non si sa come - i numeri per sostenere un esecutivo pseudo «tecnico» o di «salute pubblica», i veltroniani, che puntano diretti al bipartitismo, hanno già fatto sapere che, in un fanta-scenario come quello disegnato da D'Alema, non ci sarebbe alternativa al ritorno alle urne.
Tutto questo accade mentre su un altro fronte, quello della collocazione europea del Pd, un altro big dei Democratici, Francesco Rutelli, fa sapere, attraverso un'intervista rilasciata lunedì al Corriere della Sera, che potrebbe giungere al punto di abbandonare il partito se dovesse continuare a prevalere la linea filo-socialista portata avanti dagli ex Ds e fatta propria anche dal segretario Franceschini, e che ha condotto alla decisione di creare un euro-gruppo «socialista e democratico» (Asde). Secondo Rutelli, «la scelta simbolica di far entrare il Pd nella casa socialista in Europa è un errore capitale... Significa buttare a mare tutta la novità e la singolarità del Pd». Non è, per l'ex segretario della Margherita, soltanto una questione europea, perché potrebbe avere anche risvolti di politica interna: «Se il Pd - dice - si connota a sinistra, si chiude ogni strada di crescita».
Sono queste alcune delle tensioni che stanno emergendo nel Partito Democratico in questi giorni del post-voto ed è lecito ipotizzare che altre ne verranno a galla nelle ore e nelle settimane a venire. La tregua invocata da Franceschini almeno fino ai ballottaggi del 21 e 22 giugno non è durata. Segno che le divisioni interne, le divergenze sulla linea politica da seguire, sulle strategie, sul compito e sull'identità stessa del partito sono talmente profonde e radicate che le correnti - che tali divergenti linee rappresentano - hanno fretta di organizzarsi al meglio in vista del congresso di ottobre, senza fare sconti agli avversari. I giochi sono aperti, si affilano le armi. Stavolta - si augura Prodi (L'Unità, 16 giugno) - scorrerà il sangue. Perché più a fondo di così il Pd non può andare, e non scegliere significherebbe soltanto compiere l'ultimo passo verso il baratro.
Gianteo Bordero
martedì 16 giugno 2009
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