da Ragionpolitica.it del 30 luglio 2010
Diciamolo chiaro: non è l'Ufficio di Presidenza del Popolo della Libertà ad aver «cacciato» Fini, ma è Fini che si è messo fuori dal Pdl da almeno un anno e mezzo a questa parte. E non si è messo fuori con il suo «dissenso», bensì con la sua certosina, quotidiana opera di opposizione e demolizione del programma politico che pure egli aveva sottoscritto alla vigilia delle elezioni del 2008. Un fatto ancor più grave se si tiene conto che il cosiddetto «cofondatore» ha portato avanti questa sua azione distruttrice dall'alto della presidenza della Camera, e quindi rivestendo un incarico istituzionale di primo piano. E se tutti coloro che a sinistra solitamente si riempiono la bocca di «rispetto delle istituzioni» e dei «sacri principi costituzionali» ora tacciono silenti, è soltanto perché Gianfranco Fini, con la sua azione, ha ridato fiato ad una minoranza parlamentare che definire debole è eufemistico. Ne ha ricevuto in cambio le lodi sperticate dell'intellighenzia gauchista a corto di eroi. Rimarrà memorabile, in tal senso, l'editoriale di Eugenio Scalfari all'indomani del primo Congresso nazionale del Pdl: «Meno male che c'è Fini».
Nessun partito serio, sulla faccia della terra, può accettare che un suo esponente di spicco, un giorno sì e l'altro pure, impegni tutte le sue energie per smontare pezzo dopo pezzo le idee, i programmi, i progetti di legge che di questo stesso partito costituiscono l'ossatura, la pietra d'angolo, le fondamenta. Dovrebbe essere lui stesso a rendersi conto che forse ha sbagliato casa politica e ad andarsene, senza bisogno che siano gli altri, esaurita ormai ogni immaginabile dose di pazienza, a ricordarglielo e a pregarlo di accomodarsi alla porta. Se Fini non lo ha fatto non è perché fosse incosciente di ciò, ma perché ha voluto deliberatamente operare - con le sue prese di posizione, con l'azione di logoramento condotta dai suoi seguaci e con la guerriglia interna portata innanzi dai vari Granata e Bocchino - per indebolire dall'interno il Popolo della Libertà, il governo e la leadership berlusconiana. Era un gioco al massacro che qualsiasi partito degno di tal nome avrebbe prima o poi interrotto. E anche il Pd, che oggi parla di epurazione e simili amenità, prima di aprire bocca ripensi al trattamento riservato non più di due anni or sono al senatore Riccardo Villari, peraltro «colpevole» soltanto di essere stato legittimamente eletto alla presidenza della Vigilanza Rai. La sinistra, in questo campo come in altri, non ha proprio titolo per dare lezioni ad alcuno.
La dura presa di posizione di Berlusconi e dell'Ufficio di Presidenza del Pdl rappresenta, al contrario di quanto vogliono far credere i finiani e la gauche al gran completo, un atto di chiarezza e di coraggio. Chiarezza perché contribuisce a porre fine al caos interno al Popolo della Libertà dovuto ai continui smarcamenti e prese di distanze da parte della componente che si riconosce nel presidente di Montecitorio, che si costituirà ora come gruppo autonomo alla Camera e al Senato. Coraggio perché da un punto di vista esclusivamente tattico e di quieto vivere sarebbe stato forse più comodo, per il presidente del Consiglio, proseguire con la politica del compromesso a tutti i costi con Fini e i suoi, come nel caso del ddl sulle intercettazioni. Ma è chiaro che ciò non avrebbe portato nulla di buono né per quanto concerne l'efficacia dell'azione di governo e la realizzazione del programma né per quel che riguarda il rafforzamento del partito di maggioranza relativa. Perciò, come ha affermato il vice presidente vicario dei senatori del Popolo della Libertà, Gaetano Quagliariello, anche in questa vicenda «Berlusconi ha dimostrato di essere un leader, perché ha scelto la strada più difficile: quella della chiarezza. L'alternativa sarebbe stata una lenta consunzione». Non ci sono più alibi. Fini, adesso, è chiamato ad assumersi per intero le sue responsabilità a viso aperto.
Gianteo Bordero
venerdì 30 luglio 2010
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