Negli ultimi 15 anni, in Italia, abbiamo spesso assistito alla consunzione lenta, al logoramento quotidiano di governi dilacerati al loro interno da fratture insanabili tra partiti, leader, programmi (il caso dell'ultimo gabinetto Prodi è, in tal senso, esemplare). Ora che le ultime elezioni politiche del 13 e 14 aprile hanno portato ad una netta semplificazione del quadro parlamentare, spingendo il bipolarismo della seconda Repubblica verso una più marcata forma di bipartitismo, scene come quelle viste nel passato non dovrebbero in teoria più ripetersi. Le cronache degli ultimi giorni sembrano, invece, riportare sulla scena ciò che credevamo esserci lasciati alle spalle. Titola in prima pagina La Stampa dell'8 settembre: «Lega-Pdl, scontri a raffica». Il quotidiano torinese, in un commento a firma di Ugo Magri, cita, come casi di dissidio tra le due formazioni che compongono l'attuale maggioranza, il federalismo fiscale, la sicurezza, la giustizia, la presidenza delle Regioni del nord.
Che succede, dunque, nei rapporti tra il Popolo della Libertà e la Lega Nord? Siamo di fronte a una fisiologica dialettica tra alleati, a scaramucce tattiche oppure affiorano in superficie divergenze strategiche o, peggio ancora, discrepanze tra prospettive politiche? La risposta non è facile. Eppure è da essa che dipendono, in sostanza, le sorti del quarto governo Berlusconi. Premesso che vi è senz'altro una gonfiatura giornalistica (soprattutto da parte dei quotidiani tradizionalmente ostili al centrodestra) di quanto sta accadendo, sarebbe però stolto negare ciò che è invece si intravede con sufficiente nitidezza: la Lega manda «segnali di fumo» abbastanza evidenti, forte del consenso ricevuto il 13 e 14 aprile e delle ultime rilevazioni dei sondaggisti, al fine di imprimere in profondità il suo copyright sull'azione dell'esecutivo. E' chiaro che il Carroccio non pretende l'esclusiva ai danni del Pdl, ma un'impronta netta e duratura sul Berlusconi IV, quella la vuole lasciare. In primis con l'introduzione del federalismo fiscale, vero nucleo della proposta politica leghista, a cui sta alacremente lavorando, anche in dialogo con il Partito Democratico e con i suoi amministratori locali, il ministro Calderoli.
Ora, a questo punto si pone il problema: il cuore politico, l'atto politicamente decisivo del quarto governo Berlusconi deve essere il federalismo fiscale oppure, come auspicato dal Pdl, la ripresa di autorevolezza dello Stato, la sua riconquistata autorità, il restyling delle sue principali articolazioni amministrative? O meglio: è possibile conciliare (e se sì, fino a che punto) un percorso volto a «spostare» verso il basso, cioè verso le Amministrazioni locali, l'attribuzione delle entrate fiscali con un progetto che punta a garantire allo Stato in quanto tale maggiore efficienza, maggiore credibilità, maggiore forza? In linea di massima sì, vista anche l'esperienza di altre grandi democrazie occidentali che hanno saputo armonizzare centrale e locale con saggio equilibrio. Però siamo in Italia. E le cose si complicano.
In primo luogo perché, almeno fino ad ora, il «federalismo» in salsa italiana non ha dato grande prova di sé. Anzi, il più delle volte esso ha voluto dire, come nel caso dei nuovi poteri assegnati alle Regioni, soltanto una duplicazione delle burocrazie, un aggravio dei costi, un aumento delle spese e, dal punto di vista istituzionale, una paralizzante serie di conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni. Si dirà: la colpa è dello Stato che non ha voluto cedere sul serio le sue competenze ai livelli amministrativi più prossimi ai cittadini. Vero, come è vero che le Regioni, col pretesto del «federalismo» e della «vicinanza ai cittadini», si sono trasformate in macchine mangiasoldi, centri di clientela, fontane inesauribili di spesa. Senza una previa revisione di questo perverso meccanismo, riesce oggettivamente difficile pensare al federalismo fiscale come a un qualcosa di veramente utile ed efficace per i fini che esso si prefigge di raggiungere (efficienza amministrativa, equità fiscale, dinamismo sociale ed istituzionale).
In secondo luogo, non può essere elusa una questione: se il grosso delle entrate fiscali rimane sul territorio e anche ai sindaci viene data una più ampia facoltà di tassare, chi ci garantisce che anche i Comuni non diventino dei moloc che si auto-alimentano voracemente prelevando denaro dalle tasche dei contribuenti, dando vita ad una curiosa forma di «statalismo municipale», differente da quello «romano» soltanto per il fatto di essere più vicino (e quindi potenzialmente più oppressivo) ai cittadini? Calderoli, intervistato da La Stampa del 7 settembre, sostiene che un sindaco «scialacquerà una volta sola, perché la gente lo giudicherà e non sarà più rieletto». Bene. E se il sindaco successivo facesse lo stesso? E quello dopo ancora idem? Il rischio è che la catena non si interrompa mai. Occorrono a monte meccanismi di garanzia contro la possibilità del «centralismo comunale».
In terzo luogo, il federalismo non può essere pensato come un gioco a somma zero. Sull'altro piatto della bilancia vi dovranno essere delle contropartite costituzionali che ridiano in termini istituzionali allo Stato ciò che gli sarà stato tolto in termini fiscali. In sostanza: un forte potere di controllo e di veto sull'attività di Regioni e Comuni (le prime già oggi fanno il bello e il cattivo tempo coi soldi pubblici, i secondi lo potrebbero fare domani o dopodomani); un'accentuazione dei poteri del governo nelle materie che riguardano l'interesse e la sicurezza nazionali (immigrazione, difesa, politica estera); un rafforzamento del potere legislativo nazionale da attuarsi attraverso la chiara definizione costituzionale delle materie di esclusiva competenza statale, l'abbandono del bicameralismo perfetto e lo snellimento delle procedure per l'approvazione delle leggi.
Come si vede, si tratta di problemi complessi, che hanno a che fare con l'essenza stessa della nostra Repubblica e con il suo ordinamento. Sarebbe perciò un errore capitale quello di procedere in fretta e senza prima aver ben soppesato tutti i pro e i contro della «rivoluzione federalista». Soprattutto, sarebbe esiziale eludere previamente la questione dell'equilibrio complessivo del sistema, ossia del rapporto tra Stato centrale ed Enti locali, che riguarda, in ultima analisi, l'unità stessa della nazione e il modo in cui essa ha da articolarsi. Trovandoci al cuore dell'Italia come realtà politica, bisognerebbe mettere da parte il tornaconto immediato in termini di consenso e ragionare invece, se possibile e se ciò interessa veramente, come padri (premurosi e saggi) della patria. Altrimenti il rischio è che venga messo a repentaglio l'equilibrio del governo e, cosa ancora peggiore, del paese. Mai come oggi le due cose sono state così intimamente legate.
Gianteo Bordero
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