martedì 30 settembre 2008

WALTER SENZA POLITICA

da Ragionpolitica.it del 30 settembre 2008

Un tempo, a guidare il glorioso Partito Comunista Italiano, c'era il «Migliore», al secolo Palmiro Togliatti. Passano gli anni, passano i decenni. Cade il Muro. Il Pci cambia nome: prima Pds, poi Ds. E finalmente Pd, Partito Democratico. Niente più comunismo. Niente più sinistra. E niente più «Migliore». Oggi è il tempo del suo contrario. La parabola incominciata con Togliatti ha ora il suo epilogo in Veltroni. Dal «Migliore» al «Peggiore», il più mediocre capo che la storia comunista e post-comunista in Italia abbia mai avuto. Una carriera costellata da sconfitte e fallimenti politici, a partire dalla guida della segreteria diessina che portò il partito ai minimi storici (16,6%) nelle elezioni del 2001, per finire con la débacle del 13 e 14 aprile scorsi. In mezzo, i lunghi anni alla guida della Capitale, gli anni del nuovo mito romano e delle Notti Bianche, del modello Roma come migliore dei mondi possibili. Finito nella polvere anche quello, con il Comune in deficit per svariati miliardi di euro e la vittoria di Gianni Alemanno alle ultime amministrative.

Con questo curriculum, rimane un mistero il perché sia stato scelto uno come Veltroni a guidare il Partito Democratico. Forse, essendo egli l'uomo dell'affabulazione immaginifica, è sembrato il più adatto a creare un nuovo racconto per la sinistra italiana rimasta orfana delle grandi narrazioni ideologico-politiche, da ultimo quella del prodismo - il sogno della grande alleanza tra tutti i partiti della Costituzione e della Resistenza, secondo l'insegnamento di don Giuseppe Dossetti. Quello che Veltroni mette in scena al Lingotto di Torino nel giugno del 2007, dopo essere stato invocato come il salvatore della patria dalla «grande stampa» nazionale, è un sublime esercizio oratorio ma privo di sostanza, un bel romanzo suggestivo ma senza realtà. La nuova stagione, la discontinuità con il passato, un clima diverso tra gli schieramenti politici, un riformismo coraggioso, l'abbandono dell'antiberlusconismo. Parole, parole, parole. Castelli di sabbia pronti a crollare al primo impatto con l'onda del reale.

Lo si vede oggi, con il governo Berlusconi ancora in piena luna di miele con gli italiani, forte dei successi già conseguiti in appena quattro mesi di attività, e un Partito Democratico non soltanto in calo nei sondaggi rispetto al già deludente risultato del 13 e 14 aprile, ma anche in perenne stato confusionale riguardo alla sua stessa identità e alla sua strategia di opposizione al centrodestra. E con un segretario, Veltroni, che sembra aver perso ogni solido contatto con lo stato delle cose. Al punto da rimangiarsi come se niente fosse tutto ciò che aveva spregiudicatamente usato per presentarsi come il «nuovo che avanza» alla guida del Pd e che oggi è uno sbiadito ricordo del passato.

Chi sia Veltroni appare ora in tutta la sua evidenza: un erede qualsiasi della vecchia scuola di «doppiezza» comunista. Senza neppure il talento politico di alcuni suoi predecessori. Lo si poteva già capire prima delle ultime elezioni, quando egli, dopo aver invocato la fine della stagione della demonizzazione dell'avversario e dopo aver messo al bando le coalizioni tenute insieme soltanto dall'odio per il nemico, stipulò l'alleanza con Antonio Di Pietro, che di quella stagione e di quel tipo di coalizioni era il simbolo perfetto. Ancora, lo si poteva già capire quando, invece che imboccare senza indugi e concretamente la via dell'auspicato «dialogo» sulle riforme istituzionali e costituzionali, dopo diversi tentennamenti preferì ritornare allo scontro frontale e alle petizioni per «salvare l'Italia» dal centrodestra e da Berlusconi.

Non devono dunque stupire le ultime uscite veltroniane, da quella sul suo presunto ruolo decisivo nella soluzione della crisi Alitalia a quella sul pericolo di una deriva autoritaria e «putiniana» nel nostro paese con il Cavaliere al governo. Veltroni, come ha sempre fatto nel corso della sua carriera politica, fiuta l'aria del momento e ad essa adegua le sue posizioni, come fece all'indomani dell'omicidio di Giovanna Reggiani, quando, ancora sindaco di Roma, dopo aver per anni lasciato che i campi nomadi crescessero indisturbati nella Capitale, usò nei confronti dei Rom parole che gli valsero l'epiteto di «razzista» persino da parte di importanti autorità romene.

Veltroni non ha una politica e il veltronismo non è un pensiero politico. Come ha scritto Francesco Natale su queste pagine, il segretario del Partito Democratico «è soltanto un ottimo manager di se stesso e della propria immagine. E' una piccola holding che come oggetto sociale ha la promozione mediatica del proprio ruolo, indipendentemente dai rovesci elettorali, dei quali si fa un baffo. Per Veltroni la Politica, quella con la P maiuscola, quella fatta da e con le idee, non ha nemmeno più valenza hobbystica». Così, mentre la classe politica e di governo è alle prese con la vertenza Alitalia, egli può tranquillamente starsene negli Stati Uniti a presentare libri e presenziare a banchetti: ciò che conta, alla fine, è che il logo, il marchio «Veltroni», sia sempre sulla cresta dell'onda, e se non va bene in politica allora si rimedia con la letteratura e i vernissage. Nel caso peggiore, con l'Africa tanto amata.

Questo nullismo politico del segretario del Pd può certo garantire un lungo governo all'alleanza Pdl-Lega, ma pone un serio problema sia alla sinistra che al sistema politico nel suo complesso: la definizione di che cosa sia, oggi, l'opposizione al centrodestra, e se sia possibile una politica diversa da quella del dipietrismo, del grillismo e del girotondismo.

Gianteo Bordero

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