da Ragionpolitica.it del 20 settembre 2008
Bastava vederli, giovedì, pronti come avvoltoi ad atterrare sul cadavere della trattativa tra la Compagnia Aerea Italiana e i sindacati. Bastava sentirli, ai microfoni delle agenzie, suonare le campane a morto per il sogno berlusconiano di rilanciare la compagnia di bandiera. Non gli sembrava vero... Perfino Piero Fassino, risorto dall'oblio a cui lo avevano condannato la nascita del Partito Democratico e l'avvento della «nuova stagione» veltroniana, nel salotto di Bruno Vespa ritornava quello dei tempi migliori, quando ancora il suo partito contava (e rappresentava) qualcosa nel panorama politico nazionale.
Avere la possibilità di gettare addosso al Cavaliere la croce del fallimento del decollo della CAI era un'occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. E allora eccoli: Bersani Pierluigi, Finocchiaro Anna, lo stesso Fassino Piero. In coro: se la trattativa è andata in malora, la colpa è di Berlusconi e del suo governo. Come se bastasse dirle, queste cose, per trasformarle magicamente in realtà. Come se bastasse accusare verbalmente il presidente del Consiglio per sgonfiare le vele del suo consenso in continua crescita. Come se bastasse scaricare a parole le responsabilità dell'accaduto sul premier per convincere gli italiani a ravvedersi dopo l'errore capitale compiuto il 13 e 14 aprile.
Perché è lì che bisogna tornare per comprendere le ragioni dell'atteggiamento irresponsabile, sfascista e anti-nazionale tenuto dalla gran parte degli esponenti del Partito Democratico nella vicenda Alitalia. E' lì che bisogna guardare, alla batosta shoccante del 33,8% e allo speculare trionfo berlusconiano. E' lì che bisogna risalire, alle urne avare di consensi per la nuova creatura della sinistra, quella che era stata annunciata come la salvatrice della patria, quella della «vocazione maggioritaria», quella il cui leader sembrava in grado di far dimenticare di colpo i due terribili anni prodiani. Il Pd è ancora fermo lì. Non si è mosso di un passo, paralizzato dal duro impatto con la realtà dopo il lungo bagno di fiction veltroniana.
Anzi. In questi mesi, più passava il tempo e più Berlusconi si dimostrava capace, col suo quarto governo, di risolvere i problemi dell'Italia e degli italiani, più tra i Democratici si assisteva a un processo di regressione, a un salto all'indietro, al ritorno di ciò contro cui il Pd era nato: l'antiberlusconismo fine a se stesso, il «dagli al fascista», l'allarmismo democratico come uniche armi di lotta politica. Messe al bando le parole d'ordine su cui il segretario aveva imbastito la sua trionfale ascesa al trono (dialogo, legittimazione dell'avversario non più nemico, riforme condivise), giorno dopo giorno i dirigenti del Pd non hanno fatto altro che riavvolgere il nastro della storia fino al punto di partenza, appiccicandosi come patelle all'unico scoglio ancora saldo: la guerra a Berlusconi in quanto tale, in quanto male assoluto del paese. Convinti così di recuperare i voti perduti. Come nel quinquennio 2001-2006.
Solo che stavolta il gioco, ai democratici della cattedra e della chiacchiera, non riesce, non riuscirà. Per due motivi. Innanzitutto perché gli italiani (un popolo che la sinistra continua a considerare politicamente immaturo) hanno capito che dietro l'irrigidimento della Cgil nella trattativa con la CAI non vi erano motivi sindacali, ma soltanto politici; hanno visto che l'arrivo sulla scena di Epifani al posto del suo vice ha coinciso con l'inizio della fine delle speranze di riuscita dell'accordo; hanno sentito le dichiarazioni degli esponenti del Pd sin dal giorno in cui il presidente del Consiglio ha annunciato la nascita della cordata e l'avvio del salvataggio della compagnia di bandiera (già, «bandiera», quella che Veltroni è i suoi hanno calpestato nel nome di una ripresa di consenso che non verrà).
Il secondo motivo è che anche stavolta Di Pietro ha fregato il Pd, è stato più lesto nel cavalcare l'onda dell'antiberlusconismo. Da consumato capopopolo, fiutata l'aria, si è precipitato a Fiumicino proprio mezz'ora prima dell'annuncio del ritiro della CAI, si è messo in mezzo ai piloti e agli steward ed ha iniziato a rilanciare dai microfoni, davanti alle telecamere, i loro slogan. Si è fatto uno di loro per accalappiarne le simpatie, la preferenza e, domani, il voto. Chapeau, signor Di Pietro. Se i sondaggi danno la sua Italia dei Valori in crescita continua ai danni del Partito Democratico, un motivo ci sarà. C'è. Ed è che il Pd è talmente in balìa degli eventi, privo com'è di una identità e di una strategia, che non riesce ad essere convincente né quando dialoga con Berlusconi, né quando, il giorno dopo, lo dipinge come il demonio.
Il Partito Democratico non ha equilibrio perché non ha un punto di equilibrio. L'altro ieri si fregava le mani per il fallimento della trattativa, oggi dice che la trattativa va riaperta. Quanta schizofrenia! Quanta ipocrisia! E che faccia di bronzo! Dopo aver auspicato neppure troppo larvatamente, dal 14 aprile in poi, che il salvataggio dell'Alitalia andasse a rotoli; dopo aver spedito Epifani a far saltare l'accordo; dopo aver dato tutte le colpe al premier, ora i notabili democratici piangono lacrime di coccodrillo come se nulla fosse, come se i cittadini non avessero visto, sentito, capito. Che cosa? Che il Pd è pronto a sacrificare sull'altare dello 0,001% in più 20 mila posti di lavoro, l'appetibilità turistica del paese e, infine, l'interesse nazionale. Del resto, che cosa ci si poteva aspettare da chi, soltanto pochi mesi fa, era pronto a svendere Alitalia (che fa rima con Italia) ai francesi? Non se ne esce. La sinistra era, è e sempre rimarrà anti-nazionale, anti-patriottica, anti-italiana.
Gianteo Bordero
domenica 21 settembre 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento