da Ragionpolitica.it del 6 marzo 2010
Invece delle «forze armate per fermare il dittatore», come auspicava il solito Antonio Di Pietro, venerdì sera è arrivata la firma del presidente della Repubblica al decreto legge del governo finalizzato a garantire il regolare svolgimento delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo. Così la sinistra, che negli ultimi giorni aveva gridato all'abuso di potere, al golpe strisciante, all'imminente attentato alla democrazia messo in atto dal Cavaliere Nero, si ritrova oggi, per l'ennesima volta, con il proverbiale pugno di mosche in mano, costretta nuovamente a ricorrere alla piazza per mascherare la sua inconsistenza politica e la sua incapacità di confrontarsi seriamente e responsabilmente con le forze di maggioranza.
Il discorso vale in particolar modo per il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani, che ha mantenuto un atteggiamento di chiusura preconcetta alle proposte del centrodestra, con la tacita speranza di poter trarre profitto dal caos sorto in seguito alla bocciatura della lista del Pdl nella Provincia di Roma e del listino di Formigoni in Lombardia ed ottenere così un successo a tavolino, in una gara senza competitori, in due Regioni chiave per stabilire vincitori e vinti della consultazione di fine marzo. Ha fatto ancora una volta capolino il solito vizietto post-comunista di gareggiare azzoppando gli avversari o escludendoli dall'agone. L'inebriante odore della conquista del potere fine a se stessa ha avuto la meglio sulle voci sagge e ragionevoli (su tutte quella di Massimo Cacciari) che consigliavano alla dirigenza del Pd di considerare gli effetti di un voto di fatto falsato dalla mancata partecipazione del partito di maggioranza relativa.
Così Bersani si è infilato in un vicolo cieco. Messosi al traino di Di Pietro nei giorni precedenti il varo del decreto legge, oggi si ritrova nella sgradevole situazione di dover da un lato prendere le distanze dal suo alleato di ferro quando arriva a chiedere addirittura l'impeachment per Giorgio Napolitano - definito dall'ex pm «correo, non arbitro imparziale» - e dall'altro lato di garantire comunque l'adesione del Pd alla manifestazione di piazza annunciata per il prossimo sabato, dove è prevedibile che il capo dello Stato continuerà ad essere preso di mira dal popolo viola e dai militanti della sinistra, e dove il leader dell'Idv giocherà ancora una volta con astuzia il suo ruolo incontrastato di arruffapopoli per conquistare consensi in vista del voto.
Sono questi i risultati inevitabili di una strategia confusa, incerta e sempre oscillante tra il «vorrei ma non posso» di un rapporto non perennemente guerreggiato con la maggioranza e la tentazione di cedere agli istinti belluini di una piazza antipolitica e antiberlusconiana considerata come un serbatoio di voti irrinunciabile per il Pd. Nei giorni scorsi, subito dopo l'annuncio dell'esclusione delle liste del Pdl, il partito di Bersani era convinto di poter cavalcare la cresta dell'onda e di navigare col vento in poppa verso un inaspettato trionfo alle elezioni di fine marzo, soprattutto in una Regione come la Lombardia, da sempre feudo indiscusso del centrodestra. Oggi, dopo il sì del presidente della Repubblica al decreto del governo, la riammissione del listino di Formigoni e l'immediata offensiva di piazza di Di Pietro, l'entusiasmo lascia il passo alla delusione e alla disillusione: i nodi vengono al pettine e il Partito Democratico è costretto a tornare coi piedi per terra, a fare i conti con le sue contraddizioni e con l'incapacità congenita di porsi come soggetto che traccia la rotta stabile di una coalizione e che rinuncia a farsi guidare dalla prima nave pirata di passaggio.
Gianteo Bordero
sabato 6 marzo 2010
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