da Ragionpolitica.it dell'8 marzo 2009
Curioso destino, quello di Giorgio Napolitano. Eletto presidente della Repubblica da una sola parte politica (il centrosinistra prodiano nel 2006), oggi egli si ritrova più o meno esplicitamente accusato, dagli stessi che lo mandarono al Quirinale, di intelligenza con il nemico. Il motivo del risentimento è noto: la decisione del capo dello Stato di firmare il decreto legge interpretativo delle norme elettorali varato venerdì dal governo Berlusconi. Se le critiche - per usare un gentile eufemismo - rivolte all'inquilino del Colle da Antonio Di Pietro erano in qualche modo da mettere in conto, stessa cosa non può dirsi dell'atteggiamento incerto ed ondivago del Partito Democratico, che, come il duca di Barnabò di una celebre canzoncina per bambini, si è collocato a mezza via tra il (debole) sostegno a Napolitano e la (forte) tentazione di seguire il leader dell'Idv sulla strada della delegittimazione totale di chiunque fosse coinvolto nell'affaire del decreto governativo. Un atteggiamento, questo del Pd, che non solo ha rivelato una volta di più la congenita fragilità politica del partito di Bersani - incapace di lasciare spazio a una linea genuinamente «istituzionale», ragionevole e di buon senso, e costantemente in preda ai mai sopiti istinti antipolitici e antiberlusconiani - ma ha anche spinto il capo dello Stato a procedere da sé nella difesa delle ragioni che lo hanno spinto a dare il via libera al decreto.
Il presidente della Repubblica lo ha fatto attraverso una lettera pubblicata sabato pomeriggio sul sito internet del Quirinale, con la quale ha risposto alle mail di due cittadini, una favorevole al decreto, l'altra contraria. Il messaggio di Napolitano, di cui molto si è parlato in questi ultimi giorni, è importante non soltanto per ciò che attiene al fatto di specie, ma anche perché impartisce al centrosinistra una lezione di politica e di diritto costituzionale di cui Bersani & CO. farebbero bene a tener conto nel prosieguo del loro cammino, onde evitare ulteriori brutte figure e di finire in uno stato di totale soggezione politica a Di Pietro.
Dopo aver spiegato che sarebbe stata insostenibile una competizione elettorale dalla quale fosse rimasto escluso il partito di maggioranza relativa, il capo dello Stato innanzitutto ricorda agli smemorati dello schieramento gauchista che erano stati proprio loro, nei giorni precedenti il varo del decreto, ad annunciare di non voler vincere «per abbandono dell'avversario» o «a tavolino». Per questo, in quelle ore - scrive Napolitano - «si era da più parti parlato della necessità di una "soluzione politica"», ma «senza chiarire in che senso ciò andasse inteso». Come dire: cari signori della sinistra che oggi urlate allo scandalo, eravate stati proprio voi a dire di non voler gareggiare in solitaria. Perché, dunque, non mi avete indicato una strada percorribile? E perché vi stracciate le vesti nel momento in cui io firmo un atto che consenta una competizione «con la piena partecipazione dei diversi schieramenti»?
Ma non è tutto. Perché il capo dello Stato, preso atto che in piena campagna elettorale raggiungere un accordo tra le coalizioni è risultato di fatto impossibile, prosegue con rigore il suo affondo. E scrive che, anche qualora si fosse trovata la suddetta «soluzione politica», essa «avrebbe pur sempre dovuto tradursi in una soluzione normativa», cioè in un «provvedimento legislativo che intervenisse tempestivamente». E quel provvedimento, dati i tempi ristretti a cui si era giunti, altro non poteva essere che un decreto. Come dire, anche qui: se davvero tutti coloro che hanno dichiarato di avere a cuore un'elezione non falsata dalla mancata partecipazione del Pdl fossero in buona fede, avrebbero dovuto sapere che la Carta costituzionale, in casi d'urgenza, prevede un solo strumento: quello del decreto legge. Perché dunque scendere in piazza, urlare al regime e parlare di «attentato alla Costituzione» e simili amenità? Soprattutto quando nessuno è stato in grado di indicare «quale altra soluzione, comunque inevitabilmente legislativa - rimarca con puntiglio Napolitano - potesse essere ancora più esente da vizi e dubbi di costituzionalità»?
Due a zero e palla al centro. Di fronte agli argomenti usati dal capo dello Stato si scioglie come neve al sole il tentativo del Pd e del suo segretario di caricare tutta la responsabilità del decreto legge sulle spalle del governo. L'idea che Napolitano abbia «subìto» l'atto governativo è smentita dalle stesse parole del presidente della Repubblica, che rivendica il fatto di aver rigettato la prima ipotesi di decreto prospettatagli dall'esecutivo giovedì sera e di non aver poi riscontrato profili di incostituzionalità nel testo definitivo del provvedimento. Scrive in conclusione l'inquilino del Colle: «Io sono deciso a tenere ferma una linea di indipendente e imparziale svolgimento del ruolo, e di rigoroso esercizio delle prerogative, che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica, nei limiti segnati dalla stessa Carta e in spirito di leale cooperazione istituzionale». Ad essersi incartato - per così dire - non è dunque il capo dello Stato, ma un Partito Democratico che, come ha affermato domenica Berlusconi, rischia per l'ennesima volta di finire «ammanettato a Di Pietro», al suo massimalismo e al suo scarso, se non nullo, senso delle istituzioni.
Gianteo Bordero
lunedì 8 marzo 2010
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