da Ragionpolitica.it del 6 febbraio 2010
Bene ha fatto, il governo, a impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale le leggi regionali di Campania, Puglia e Basilicata che impediscono l'installazione di impianti nucleari in quei territori. La proposta di impugnazione è venuta dal ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, secondo il quale tale atto è «necessario per ragioni di diritto e di merito». Per quanto riguarda il primo aspetto - ha spiegato il ministro - «le tre leggi intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica) e non riconoscono l'esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell'ambiente, della sicurezza interna e della concorrenza (articolo 117, secondo comma della Costituzione)». Venendo invece alla questione di merito, Scajola ha affermato che «il ritorno al nucleare è un punto fondamentale del programma del governo Berlusconi, indispensabile per garantire la sicurezza energetica, ridurre i costi dell'energia per le famiglie e per le imprese, combattere il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra secondo gli impegni presi in ambito europeo».
E' importante cercare di comprendere i due assunti politico-ideologici che stanno alla base delle leggi regionali contro cui l'esecutivo ha deciso di fare ricorso. In primo luogo vi è un'idea distorta e parziale del federalismo, secondo la quale le Regioni rappresentano una sorta di «Stato in miniatura», cioè un Ente in tutto identico, salvo che nell'estensione territoriale, allo Stato centrale. Questa concezione affonda le sue radici nella riforma del Titolo V della Costituzione approvata in fretta e furia dal centrosinistra al termine della XIII legislatura (1996-2001) per tentare di ingraziarsi l'elettorato leghista in vista delle elezioni politiche del 13 maggio 2001. Tale riforma, lungi dal mettere in atto un sano federalismo, ben inserito e bilanciato nel quadro dell'unità nazionale, con la nuova formulazione dell'articolo 117 della Carta costituzionale da un lato ha assegnato alle Regioni la potestà legislativa su «ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato», dall'altro lato ha previsto una lunga serie di materie concorrenti: si è creata così una grande confusione di competenze tra Stato e Regioni, con prevedibili e inevitabili ricorsi alla Consulta, ma soprattutto è stata legittimata l'idea di una sostanziale equivalenza tra il potere legislativo del parlamento centrale e quello dei parlamentini (ormai veri e propri parlamenti) regionali. La conseguenza di tutto ciò è stata che, più che a un vero federalismo (quello in cui alla previsione di più poteri per le Regioni corrisponde un rafforzamento dei poteri di controllo e indirizzo dello Stato centrale e del governo), si è dato vita ad un mero «regionalismo» trasformatosi non di rado, in questi due lustri, in «centralismo» o «statalismo» regionale.
Ma l'esito culturalmente e politicamente più grave del «pasticciaccio brutto» della riforma del Titolo V è stato quello di mettere in secondo piano l'interesse nazionale, cioè l'interesse dell'Italia in quanto tale, oltre le sue partizioni territoriali. Si è creato così un corto circuito tra territorio e Stato, tra dimensione locale e dimensione nazionale, i cui frutti avvelenati sono oggi sotto gli occhi di tutti: si pensi, oltre al caso odierno del nucleare, anche a episodi come quello dell'opposizione alla Tav in Val di Susa e, più in generale, alla realizzazione di infrastrutture e grandi opere necessarie all'ammodernamento del paese e foriere di sviluppo e benessere per tutta la nazione.
Venendo poi alla seconda ragione che sta alla base del «no» di Campania, Puglia e Basilicata all'impianto di stabilimenti nucleari sul loro territorio, essa è da individuare in un atavico e cieco dogma ideologico che ancora permea ampi settori della gauche italiana (tant'è vero che queste tre Regioni sono amministrate da giunte di centrosinistra): il dogma secondo cui «nucleare» è sinonimo di disastri ambientali, inquinamento e distruzione della Natura. A poco valgono gli sviluppi tecnologici che oggi garantiscono impianti sicuri e ad emissioni zero. A poco valgono le dichiarazioni di ambientalisti storici come Chicco Testa, James Lovelock e Stephen Tindale, che sono diventati sostenitori della produzione di energia elettrica da fonte nucleare come strumento per contenere l'inquinamento atmosferico. A poco valgono le analisi storiche sulle vere cause (scarsa o nulla manutenzione e crisi irreversibile del sistema sovietico) che portarono alla catastrofe di Chernobyl. Ancora, a poco vale ricordare che i referendum anti-nucleare del 1987 non prevedevano in alcun modo l'abolizione o la chiusura delle centrali. E a poco, infine, vale rilevare come anche per quanto riguarda il problema dello smaltimento delle scorie siano ormai stati fatti molti passi in avanti dal punto di vista della sicurezza (in Spagna - è notizia di questi giorni - addirittura tredici cittadine si sono candidate ad ospitare il nuovo grande deposito di scorie che il governo vuole realizzare). Questi sono tutti dati di realtà totalmente ignorati da chi pone al primo posto - per convenienza politica immediata o per incapacità di mettere in discussione vecchie convinzioni - l'astrattezza ideologica, il mantra propagandistico, il pregiudizio comodo e politicamente corretto.
Per tutti questi motivi diventa ancora più importante la scelta del governo Berlusconi di impugnare le tre leggi regionali citate e di procedere innanzi, senza tentennamenti, sulla strada del ritorno al nucleare. In nome del principio di realtà e della salvaguardia dell'interesse nazionale. A tal proposito, il ministro Scajola ha annunciato che nella prossima riunione del Consiglio dei ministri, che si svolgerà il 10 febbraio, «ci sarà l'approvazione definitiva del decreto legislativo recante misure sulla definizione dei criteri per la localizzazione delle centrali nucleari». Avanti tutta.
Gianteo Bordero
sabato 6 febbraio 2010
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