da Ragionpolitica.it del 26 settembre 2009
Se il parlamento è «mafioso» e vota «provvedimenti criminali», che cosa ci sta a fare ancora l'onorevole Tonino Di Pietro? Lui, che si proclama puro e incontaminato, lui paladino della moralità, lui che combatte ogni giorno la dura battaglia contro i disonesti, i corrotti e i faccendieri? Se veramente è convinto di quanto ha affermato venerdì, se davvero ritiene che la Camera e il Senato siano congreghe di malavitosi, perché non si dimette? Perché continua a rimanere nel gioco sporco della politica? Perché non torna ad indossare la toga (che infondo non ha mai dismesso) ed inquisisce tutto il sistema dei partiti come già fece quindici anni fa, durante i bei giorni andati di Mani Pulite? Perché non sceglie di calcare nuovamente le aule dei tribunali nella veste che meglio gli si addice, quella di pubblico accusatore, per interrogare a reti unificate il potente di turno ed umiliarlo come fece con i big della defunta Prima Repubblica? Perché continua a frequentare un ambiente nel quale rischia seriamente di contaminarsi con tutte le zozzerie di questo mondo? Perché non viene via da Montecitorio, convocando gli amici di un tempo per abbattere il sistema politico vigente dal sacro scranno del giudice? Perché non organizza un blitz dell'antimafia nelle aule parlamentari, una bella retata per portar via i suoi attuali colleghi, esclusi ovviamente quelli immacolati dell'Italia dei Valori?
Facile criticare, facile denunciare, facile accusare, quando poi le parole rimangono parole, e invece di diventare corposi faldoni d'inchiesta restano cibo per le agenzie di stampa e per i pastoni politici del giorno dopo. Facile urlare ai quattro venti, facile ergersi a Savonarola di turno, facile moraleggiare su questo e su quello, quando tutto ciò è in funzione del mero consenso elettorale. Facile puntare il dito, facile giudicare, facile costruire teoremi quando poi tutto questo rimane dentro al grande circo della politica politicante. Troppo facile, onorevole Di Pietro, inquisire il «sistema» e poi starsene comodamente seduti sul proprio seggio di parlamentare. Troppo facile, andare in piazza contro la «Casta» e poi continuare a farne parte come se niente fosse. Troppo facile organizzare alla sera le crociate della moralità antipolitica assieme ai grandi moralisti Grillo, Travaglio e Santoro, e poi, la mattina successiva, prendere posto nel proprio banco come se niente fosse. Se fosse coerente fino in fondo, se veramente tirasse le conseguenze del suo dire, allora dovrebbe andarsene alla svelta, aprire subito i processi, raccogliere e mostrare le prove delle sue affermazioni di fronte agli italiani tutti, in modo che possano toccare con mano la verità delle sue dichiarazioni, la solidità delle sue accuse. Sarebbe un servizio di cui il paese le sarebbe grato.
Invece no. Lei resta, all'insegna del motto «hic manebimus optime». Resta e denuncia disegni oscuri e complotti ai suoi danni. Parla di un assalto alla libertà d'espressione, salvo poi presentarsi liberamente in televisione e altrettanto liberamente dire che la stampa è imbavagliata. Parla di un regime in atto, di un novello Mussolini che siede a Palazzo Chigi, di un dittatore che soffoca il paese, salvo poi presentarsi tranquillamente alle elezioni per raccogliere i frutti della sua propaganda. E' davvero un liberticida da barzelletta colui che consente ai suoi nemici di attaccarlo un giorno sì e l'altro pure! Ed è davvero un regime di cartapesta quello che permette ai suoi oppositori di candidarsi e di accrescere la propria presenza nelle istituzioni!
Forse la verità, onorevole Di Pietro, è che neppure lei crede fino in fondo alle cose che con tanta foga, rabbia ed energia sostiene in pubblico. Perché se ci credesse, come detto poc'anzi, tornerebbe a fare il magistrato per poterle dimostrare. Il fatto che rimanga è la prova provata che la realtà della politica italiana non è quella che lei dipinge. E infine un nota bene consclusivo: prima di rovesciare sugli altri ogni genere di accusa, farebbe bene a guardare in casa sua: la rivista Micromega, una delle più anti-berlusconiane e pro-dipietriste del pianeta, dedica un saggio di cinquanta pagine al suo partito, l'Idv, dall'eloquente titolo: «C'è del marcio in Danimarca. L'Italia dei Valori regione per regione». Vi si legge: «Deficit di democrazia interna e strapotere in mano a pochi e discussi professionisti della politica. È il risultato della passata strategia di corto respiro dell'Idv imbarcare a destra e a manca (e soprattutto al centro) transfughi di altre formazioni politiche, consegnando loro le chiavi delle federazioni locali. Questo emerge dall'inchiesta sulle strutture locali del "partito dell'anticasta". Alla vigilia di una lunga stagione congressuale e dopo candidature come quella di De Magistris, il partito di Di Pietro deve scegliere se rinnovarsi davvero o precipitare nella "sindrome Occhetto"». Chi di giustizialismo ferisce...
Gianteo Bordero
sabato 26 settembre 2009
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento