da Ragionpolitica.it del 30 dicembre 2009
Passano le stagioni, passano gli anni, passano i segretari. Ma il Partito Democratico non cambia mai. Diviso come sempre, litigioso come sempre, inconcludente come sempre. Ogni leader che ne prende in mano il timone viene in un primo momento acclamato e presentato come il salvatore della patria, salvo poi rimanere ostaggio dei veti incrociati, delle ripicche personali, delle vendette tra notabili. Il risultato è che il partito appare come una barca ingovernabile, strattonata a destra da chi vorrebbe un Pd più moderno, riformista e responsabile, e a manca da chi lo vorrebbe sempre più antiberlusconiano, dipietrista ed estremista. Tenere la barra al centro, in queste condizioni, è impresa quasi disperata. E non basta vincere un Congresso e accontentare gli sconfitti con incarichi di primo piano per mettersi al riparo dalle rivolte interne di una ciurma in cui ognuno aspira a fare il comandante e nessuno si sacrifica per il gruppo. Ne sta facendo esperienza diretta, in questi giorni, il nuovo segretario Pier Luigi Bersani, che, dopo una breve fase post-congressuale nella quale sembravano essere presenti tutte le condizioni per poter seguire una rotta politica certa e per intraprendere una navigazione più tranquilla rispetto agli anni scorsi, deve ora fare i conti con i fantasmi del passato che incombono alle sue spalle con un'ombra inquietante che nulla di buono lascia presagire per il futuro.
I fatti sono noti: al contrario del suo predecessore, capace soltanto di ripetere banali slogan antiberlusconiani nella speranza di strappare qualche voto all'amico-nemico Antonio Di Pietro (pia illusione!), Bersani ha deciso che non è più il tempo delle mele, cioè dell'adolescenza politica del Pd, e che è arrivato il momento della maturità, cioè della responsabilità. Tradotto: basta con la purulenta dose quotidiana di contumelie contro il centrodestra e il suo leader, che nulla producono sul piano politico e neppure riescono a spostare un voto uno in direzione del Partito Democratico; meglio confrontarsi con l'avversario sul terreno dei contenuti, sull'idea di paese, contrapponendosi sul piano della politica senza però fomentare l'odio contro la persona. E se c'è da affrontare insieme i grandi nodi della riforma costituzionale, il Pd non si tira di certo indietro. Apriti cielo! E' bastato che il nuovo segretario sussurrasse questi concetti, propri di ogni democrazia e patrimonio di ogni vero democratico, per scatenare il «fuoco amico» delle solite Rosy Bindi e dei soliti Ignazio Marino e Dario Franceschini, contrari a prescindere ad ogni minimo contatto con il Cavaliere Nero. Persino un redivivo Walter Veltroni, che tutti ricordano come l'uomo del disgelo, della nuova stagione, delle prediche contro l'infantilismo antiberlusconiano, ha reso noto il suo sdegno per le posizioni espresse da Bersani e soprattutto dal suo grande sponsor, Massimo D'Alema, colpevole di aver dichiarato che a volte i compromessi con l'avversario sono utili se hanno come fine il bene del paese.
Così Bersani si ritrova oggi a dover giocare sulla difensiva, costretto a smentire ogni tipo di contatto con il presidente del Consiglio e a cercare di dimostrare di non essere l'uomo dell'inciucio. Una situazione, quella del segretario, resa ancor più complicata dall'approssimarsi della data per la definizione delle candidature per le elezioni regionali del prossimo marzo. Un appuntamento decisivo per il Partito Democratico e, soprattutto, un importante banco di prova per Bersani, che uscirebbe malconcio da un'eventuale (e non improbabile) débacle in alcune Regioni attualmente amministrate dal centrosinistra e che, secondo i sondaggi, potrebbero passare al centrodestra. La scelta dei candidati e, soprattutto, la definizione delle alleanze sono dunque decisive per riuscire a tener testa allo schieramento avverso: il segretario ha detto chiaro e tondo di non voler rinunciare, laddove possibile, a un accordo con l'Udc di Pier Ferdinando Casini, ago della bilancia in alcune Regioni. Accordo che viene invece visto come fumo negli occhi dall'ala dura e pura, che pensa soprattutto a siglare patti con Di Pietro e ad allargare il più possibile a sinistra l'alleanza. Indicativo è, in tal senso, quello che sta accadendo in Puglia, con una lotta senza esclusione di colpi, in vista della nomination, tra il presidente uscente, Nichi Vendola, e il sindaco di Bari Michele Emiliano, osteggiato dai veltroniani e sostenuto dal segretario.
Sono segnali che indicano come il livello di scontro all'interno del Partito Democratico sia tornato a livelli da stato d'allerta, e che potrebbero avere serie ripercussioni sul confronto in merito alle riforme costituzionali auspicate dai leader di entrambi gli schieramenti. Come ha osservato Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 30 dicembre, «le trattative sulle riforme sono come i negoziati internazionali: non portano a nulla se l'uno o l'altro (sia esso un partito politico o uno Stato) dei supposti protagonisti della trattativa è debole e diviso al suo interno, il che lo rende un negoziatore poco efficace e poco affidabile. Questa è la situazione in cui versa oggi il Partito democratico». Non sarà dunque responsabilità di Berlusconi se la maggioranza sarà di fatto costretta a procedere da sola nell'ammodernare la Carta costituzionale e le istituzioni italiane.
Gianteo Bordero
giovedì 31 dicembre 2009
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