da Ragionpolitica.it del 28 novembre 2009
Ammettiamo - ma non concediamo - per un istante che sulla questione della magistratura italiana Silvio Berlusconi esageri, in quanto direttamente coinvolto nelle inchieste. Ammettiamo - e non concediamo - che anche il Popolo della Libertà esageri, in quanto arroccato nella difesa del suo leader. Che cosa dovremmo dire, allora, del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che venerdì ha dichiarato che «quanti appartengono all'istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione debbono attenersi rigorosamente allo svolgimento di tale funzione» e che «nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare»? Se usassimo lo stesso metro di giudizio utilizzato dalla sinistra forcaiola e giustizialista, dovremmo dedurne che anche il capo dello Stato è stato colto da allucinazioni ed è rimasto vittima della «sindrome di Berlusconi», cioè di quel pericoloso virus che porta a mettere in dubbio il dogma della sacralità e dell'infallibilità della magistratura...
La verità è un'altra, ed è che chiunque non abbia la mente offuscata dalla furia ideologica del giacobinismo può benissimo constatare senza troppi sforzi come oggi, nel nostro paese, alcuni giudici e pubblici ministeri tentino non di rado di trasformarsi in soggetti politicamente attivi e di decidere così le sorti delle istituzioni democraticamente elette dal popolo. Tale tentativo, in realtà, non nasce ora come un fungo: esso si protrae in maniera evidente dagli inizi degli anni Novanta, cioè da quando, nella crisi dei partiti democratici della Prima Repubblica, la magistratura pensò di poter assumere il ruolo di arbitro (non imparziale) della vita politica, mandando al macero un'intera classe dirigente e preparando il terreno per un nuovo assetto di potere nel quale l'ultima parola spettasse a quello che è stato chiamato «partito dei giudici»: un contenitore che raccogliesse i graziati dalle inchieste di Mani Pulite, il partito postcomunista, pezzi delle élites economiche e culturali che avevano sostenuto a spada tratta l'azione delle toghe milanesi, il «popolo dei fax», alcuni pubblici ministeri passati alla politica. Tale partito sarebbe stato l'unico legittimato a governare grazie al beneplacito delle Procure e sotto la loro protezione.
Se questo progetto non andò in porto fu soltanto grazie alla decisione di Berlusconi di entrare nell'agone politico e alla vittoria del centrodestra alle elezioni del marzo 1994. Nonostante ciò, quello che Lino Jannuzzi ha definito il «disegno di potere» di certa magistratura non fu accantonato. Tant'è vero che fu proprio Berlusconi, dopo la sua «discesa in campo», ad essere preso di mira dagli inquirenti, con una costanza e una regolarità che si protraggono ormai da quindici anni, a partire dal clamoroso avviso di garanzia a mezzo stampa del novembre del '94, mentre il Cavaliere presiedeva un importante summit internazionale sulla criminalità. Da allora per il leader del centrodestra è stato un susseguirsi di accuse di ogni genere, sospetti, perquisizioni, inchieste, processi, da cui egli è sempre uscito a testa alta, senza nemmeno una condanna una. Eppure il tentativo continua. Anzi, negli ultimi mesi esso si è intensificato, tanto più dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale.
Solo gli immarcescibili pasdaran dell'antiberlusconismo, i giustizialisti in servizio effettivo permanente, gli eterni nostalgici di Mani Pulite, i dipietristi d'assalto e i micromeghisti bigotti possono oggi negare che esista un accanimento giudiziario nei confronti del presidente del Consiglio. Chi non è accecato dall'odio viscerale per il Cavaliere sa come stanno le cose, e la stragrande maggioranza degli italiani ha ormai compreso - ed è qui la grande differenza tra i tempi attuali e gli anni di Tangentopoli, quando l'onda emotiva suscitata dai processi e il battage mediatico di glorificazione delle gesta del pool di Milano avevano creato attorno ai magistrati un consenso popolare molto diffuso - che parlare di persecuzione giudiziaria ai danni di Berlusconi non è dire una bestemmia, ma prendere atto di una realtà.
In questo contesto ben vengano le parole di Napolitano, che hanno il merito di porre la presidenza della Repubblica in una posizione ben diversa da quella che essa invece assunse, con Oscar Luigi Scalfaro, dapprima nel periodo di Tangentopoli e poi nei confronti di Berlusconi nei suoi primi anni di attività politica. Il messaggio che oggi proviene dal capo dello Stato è chiaro: se qualcuno cercasse al Quirinale una sponda per abbattere il governo e far fuori dalla scena politica il presidente del Consiglio ha sbagliato indirizzo. Ciò offre alla maggioranza uno spazio di manovra reale per poter portare avanti una riforma che miri alla «definizione di corretti equilibri tra politica e giustizia», per riprendere un'espressione usata dallo stesso Napolitano e contenuta anche nel comunicato diffuso al termine dell'Ufficio di presidenza del Popolo della Libertà, riunitosi giovedì a Roma: «La democrazia si fonda su un corretto e giusto equilibrio fra i diversi poteri e ordini dello Stato». E' dentro a questo snodo decisivo per la tenuta del nostro sistema istituzionale che va inquadrata la questione della difesa di Berlusconi da un'offensiva giudiziaria che mette sulla graticola non soltanto un premier, ma la stessa vita democratica della Repubblica.
Gianteo Bordero
sabato 28 novembre 2009
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