da Ragionpolitica.it del 12 novembre 2009
Subito dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale, lo scorso 7 ottobre, scrivemmo su queste pagine che l'Italia e il suo sistema istituzionale continuavano a pagare le conseguenze della sciagurata abolizione dell'immunità parlamentare, avvenuta nel 1993 sotto l'onda emotiva dei processi di Tangentopoli. Una decisione che ha comportato, nella sostanza, la messa sotto scacco del primato della politica nel nostro paese, assegnando alla magistratura un potere di veto sul parlamento eletto dal popolo sovrano. Che lo si voglia o no, è stata questa la vera, grande anomalia italiana degli ultimi quindici anni: il tentativo di certi giudici e pm di porre sotto tutela, tramite la perenne minaccia dell'avviso di garanzia, delle manette e della carcerazione preventiva, la rappresentanza democratica. Un tentativo sostenuto da buona parte del sistema mediatico nazionale, che ha contribuito a diffondere nell'opinione pubblica l'ideologia dell'antipolitica, che come un tarlo ha roso a poco a poco la coscienza civile del paese, fino al punto di far credere che tutto ciò che reca il timbro dell'autorità giudiziaria porta con sé il carattere dell'infallibilità, mentre le azioni della politica sono per ciò stesso disoneste, corrotte, immorali. Se l'immunità parlamentare aveva garantito per quarant'anni il sacrosanto principio secondo cui l'ultimo giudice delle scelte politiche rimane l'elettore, la sua abolizione ha consegnato questo potere ai magistrati, recando un oggettivo vulnus al nostro sistema democratico.
Cestinato il Lodo Alfano, che proponeva non il ritorno all'immunità, bensì, più modestamente, la sospensione dei processi per le quattro alte cariche dello Stato, il problema è tornato a porsi in tutta la sua gravità. Infatti, che certi togati cerchino ancora oggi di determinare le sorti politiche del paese è un dato di realtà che solo i giustizialisti accecati dal fanatismo ideologico possono non vedere. L'esistenza della volontà di espellere dalla scena colui che nel 1994, legittimato dal voto popolare, impedì con la sua discesa in campo l'ascesa al potere del gran connubio tra partiti di sinistra e giudici, non è un argomento propagandistico creato ad arte dal centrodestra, ma emerge in modo chiaro dalle stesse dichiarazioni di taluni magistrati. Come, da ultimo, Antonino Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, che durante un recente convegno organizzato dall'Italia dei Valori ha chiamato alla lotta totale contro le annunciate riforme del governo in materia di giustizia. Ingroia, esponente di quella Magistratura Democratica che tra i suoi obiettivi storici ha l'abbattimento dello «Stato borghese» tramite l'azione giudiziaria, è lo stesso che su Micromega, assieme al collega Roberto Scarpinato, scriveva qualche tempo fa che è possibile «sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza». Sono frasi che si commentano da sole e che dovrebbero far preoccupare chiunque abbia davvero a cuore la democrazia in Italia e l'equilibrio tra poteri nella nostra Repubblica.
Tornare a garantire il primato della politica e della sovranità popolare è un imperativo che dovrebbe essere fatto proprio da tutti i partiti che ambiscono al governo del paese. Il Popolo della Libertà si è già mosso in questa direzione: l'onorevole Margherita Boniver, ad esempio, ha presentato l'11 novembre alla Camera un progetto di legge costituzionale finalizzato al ripristino dell'immunità parlamentare nell'articolo 68 della Carta fondamentale. E il capogruppo a Montecitorio del partito, Fabrizio Cicchitto, ha dichiarato che, nel quadro della riforma della giustizia allo studio della maggioranza, sarà da ricomprendersi anche il riequilibrio del «delicato rapporto tra politica e magistratura», messo in crisi dalla cancellazione dell'immunità nel 1993.
Dunque, dopo anni di predominio culturale del giustizialismo, riflettere sull'istituto dell'immunità parlamentare non è più tabù, perché è questo uno degli strumenti principali per porre fine all'anomalia di un potere giudiziario che cerca di sostituirsi alla volontà del corpo elettorale nella selezione dei rappresentanti del popolo. Come ha ricordato il direttore del Tg1, Augusto Minzolini, nel suo editoriale del 9 novembre: «I padri costituenti che inserirono nella Carta l'immunità parlamentare lo fecero non perché erano dei malandrini, ma perché consideravano quella norma necessaria per evitare che il potere giudiziario arrivasse a condizionare il potere politico... Non fu di certo un'idea stravagante: strumenti diversi, ma con le stesse finalità, sono previsti in Germania, Inghilterra, Spagna, e dell'immunità beneficiano anche i parlamentari di Strasburgo». Dopo l'ondata giacobina di Mani Pulite, che portò all'auto-castrazione della politica con la cancellazione dell'immunità dal testo costituzionale, oggi sono maturi i tempi affinché quello che Minzolini definisce un «vulnus all'equilibrio tra i poteri» sia definitivamente sanato.
Gianteo Bordero
venerdì 13 novembre 2009
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