da Ragionpolitica.it del 14 novembre 2009
Il 9 novembre l'Occidente e il mondo libero hanno celebrato il ventennale della caduta del Muro di Berlino, evento che più di ogni altro ha segnato l'inizio della fine dei regimi comunisti appartenenti al blocco sovietico. Eppure, già 160 anni fa c'era chi, in qualche modo, aveva previsto tutto. E' una figura nota soprattutto agli studiosi di filosofia e di storia delle dottrine politiche, ma poco conosciuta presso il grande pubblico: Antonio Rosmini Serbati (Rovereto, 1797 - Stresa, 1855), sacerdote, filosofo, teorico del diritto e della politica, teologo, iniziatore di un movimento spirituale che ebbe tra i suoi figli personaggi di rilievo come il grande poeta Clemente Rebora. Autore di capolavori come la Filosofia della politica, la Filosofia del diritto, la Teodicea, le Cinque piaghe della Santa Chiesa, Rosmini fu una figura di primo piano non soltanto nell'elaborazione filosofica dell'Ottocento e nello sviluppo del pensiero cattolico in rapporto alle nuove correnti teoretiche del tempo, ma anche nelle vicende che portarono alla nascita dello Stato italiano. Propugnatore di un federalismo liberale finalizzato alla pacificazione tra le varie realtà statuali presenti nell'Italia di allora, egli fu vicino a far accettare al Papa Pio IX una forma di Confederazione che, se realizzata, avrebbe evitato sia al nostro paese che alla Chiesa cattolica decenni di tensioni e incomprensioni reciproche.
Rosmini ebbe dunque in dono una capacità non comune di vedere oltre le contingenze e di proiettare il suo sguardo oltre l'attualità. Come nelle Cinque piaghe della Santa Chiesa (1848) anticipò temi teologici che sarebbero stati poi ripresi 120 anni più tardi dal Concilio Vaticano II, così anche per quel che riguarda la riflessione politica egli individuò con una lucidità senza pari quelli che sarebbero stati gli esiti delle dottrine che in quel tempo andavano per la maggiore. Una tra queste dottrine, come detto, era quella comunista, non ancora segnata dall'opera di Marx, ma comunque già recante in sé i semi che avrebbero poi fruttificato - purtroppo - nei decenni a venire. Nel 1847 Rosmini espone sotto forma di discorso, presso l'Accademia dei Risorgenti di Osimo, il suo Saggio sul comunismo e sul socialismo, che verrà poi stampato a Napoli due anni più tardi e che oggi possiamo nuovamente apprezzare grazie all'editore Talete, che lo ha ripubblicato nella sua collana «Gli introvabili», con introduzione di Luigi Compagna.
Il Saggio è una critica serrata nei confronti dello «spirito di utopia» di cui erano intrise le dottrine socialiste e comuniste del tempo. L'idea portante dell'opera rosminiana è che queste teorie rappresentano il principale nemico della libertà e portano con sé i germi della violenza e del «dispotismo». Pensatori come Robert Owen, Saint-Simon, Charles Fourier - afferma Rosmini - dicono di voler cancellare le ingiustizie, sollevare la condizione dei poveri, realizzare un mondo nuovo in cui regni finalmente l'uguaglianza, portare a tutti gli uomini una «smisurata felicità» e la vera libertà; eppure i mezzi con i quali essi propongono di realizzare tutto ciò conducono, in sostanza, alla stessa negazione dei fini. Owen, ad esempio, «fonda la sua utopia filantropica sulla totale distruzione della umana libertà», perché pensa che l'individuo «soggiace ad un assoluto fatalismo» ed «è determinato necessariamente dagl'istinti ingeniti e dalle fortuite esteriori circostanze». Agli stessi risultati conduce la teoria di Fourier, che proclama «l'assoluto dominio di tutte le passioni come principio fondamentale» e «sull'ara delle passioni egli decreta che l'umana libertà sia immolata»; come potrà, infatti, essere libera e pacifica una società in cui non vi sia alcun freno alle opposte passioni degli uomini e ai loro istinti più bassi?
Se prese sul serio, le dottrine degli utopisti comunisti - annota Rosmini - non possono che produrre governi totalitari che necessariamente debbono usare la violenza per esercitare il loro potere sugli uomini. Governi che, per affermare concretamente un'idea astratta di uguaglianza e giustizia, cancellano ogni libertà e ogni diritto: la libertà di coscienza, la libertà religiosa, la libertà economica, la libertà politica, la libertà d'associazione, la libertà d'educazione, la libertà d'insegnamento. Tutto è assorbito dall'autorità pubblica, che, sotto la guida degli illuminati pensatori utopistici, è la sola titolata a stabilire che cosa è bene e che cosa è male per ciascuno. In questi «nuovi sistemi - scrive Rosmini - l'individuo non è più nulla e il governo è tutto». Infatti, «per levare ogni abuso si propone di concentrare le ricchezze tutte e tutti i poteri del mondo in mano al governo, a un governo sciolto da ogni morale obbligazione, da ogni timor di Dio e degli uomini, da ogni vincolo di coscienza, da ogni guarentigia a favore de' governati». In sintesi: il comunismo, «lungi dall'accrescere la libertà alle società ed agli uomini, procaccia loro la più inaudita ed assoluta schiavitù, li opprime sotto il più pesante, dispotico ed empio dei governi». Ognuno può vedere da sé come Rosmini avesse già allora perfettamente compreso quali sarebbero stati gli esiti nefasti dell'applicazione delle dottrine comuniste. La storia ha dato ragione al grande roveretano.
Gianteo Bordero
sabato 14 novembre 2009
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