sabato 7 novembre 2009

IL VECCHIO CHE AVANZA

da Ragionpolitica.it del 7 novembre 2009

«E' il nuovo che avanza, non lo senti il suo viavai», cantava Antonello Venditti pochi anni dopo l'avvento del berlusconismo politico nel nostro paese. Oggi, dopo aver ascoltato il discorso programmatico di Pierluigi Bersani di fronte all'Assemblea Nazionale del Pd, potremmo parafrasare il cantautore romano e dire che, dalle parti della sinistra italiana, «è il vecchio che avanza». Lo stile Bersani, per quanto egli si sforzi di dare qualche incipriata di novità al Partito Democratico, rimane quello del vecchio dirigente del Pci, dell'ex presidente di Comunità Montana. Lo stile - così lui l'ha chiamato - «da bocciofila». Meglio sarebbe dire da Festa dell'Unità del piccolo paese, con le salamelle, la piadina, il Lambrusco, il torneo di carte e l‘orchestra del liscio...


«Nostalgia canaglia», direbbero Albano e Romina. E va bene che dopo l'ubriacatura collettiva del nuovismo di Veltroni ci voleva una robusta frenata, qualcuno che facesse tornare il Partito Democratico con i piedi per terra dopo i voli pindarici di Walter il sognatore, l'Obama «de noantri». Ma qui si è esagerato, perché non c'è stata soltanto la frenata: il terzo segretario del Pd ha innestato con decisione la retromarcia e ha fatto capire che la musica che suonerà il Pd nei prossimi anni non sarà più il pop veltroniano, ma la ballata folk in stile gucciniano. Dal «Mi fido di te» jovanottiano alla «Locomotiva», con tutti i suoi richiami al bel tempo che fu, il proletariato, gli operai, le fabbriche, la lotta contro le ingiustizie...


E allora corre, corre, corre la locomotiva bersaniana. Ma corre all'indietro. Se il Veltroni del Lingotto auspicava la «nuova stagione», la fine dell'antiberlusconismo, il dialogo leale tra due grandi partiti, l'uscita definitiva dal Novecento, il partito «liquido» e postmoderno, Bersani non rinuncia ai vecchi, cari temi della lotta al Cavaliere (sulla riforma della giustizia, ad esempio, ha detto che il problema è rappresentato dalla «insuperabile interferenza di questioni che si riferiscono alla situazione personale del premier» e «dalla aggressività e dalla volontà di rivincita scagliate contro il sistema giudiziario e la magistratura»), della grande coalizione tra le forze di sinistra (il Pd si rivolgerà «a tutte le forze di opposizione», da quelle parlamentari a quelle rimaste sotto la soglia per entrare a Palazzo, «come Sinistra e Libertà, Verdi, formazioni civiche e di origine socialista e repubblicana»), del partito «solido» e fortemente radicato sul territorio.


«Costruire il partito, preparare l'alternativa», dice Bersani. Ma intanto c'è da sbrigare la pratica delle nomine e del riassetto interno della nomenklatura. Ed anche qui il ritorno alle vecchie logiche è garantito. Bisogna accontentare tutte le correnti e correntine, trovare il posto ad ognuno in modo che nessuno si lamenti, Franceschini e Marino in primis. Perché vanno bene le primarie e la lotta serrata tra diverse idee di partito, ma poi mica si può fare troppo sul serio e mandare a casa gli sconfitti. E allora, via col manuale Cencelli per sistemare il tale qui e il tal'altro là, in un gioco di potere ed equilibrio interno da far rimpiangere la tanto deprecata Prima Repubblica. A rimanere fuori dalla «gestione plurale» sono solo gli assenti: Romano Prodi, che ha declinato l'invito a diventare presidente del partito (carica assegnata a Rosy Bindi, evvai!), Walter Veltroni, ormai in tutt'altre faccende affaccendato, e Francesco Rutelli, che ha sciolto gli ormeggi in direzione Casini dopo la vittoria di Bersani alle primarie. Tre «padri nobili» del Pd che, per un motivo o per l'altro, hanno intrapreso altre strade rispetto a quella impervia che oggi si appresta a percorre il nuovo segretario: tenere in vita un partito che a soli due anni dalla nascita rischia di soffocare sotto il peso della storia politica dei suoi padri.


Gianteo Bordero

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