da Ragionpolitica.it del 18 agosto 2009
Bene ha fatto, il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, ad annunciare ricorso contro la recente sentenza dell'onnipresente TAR del Lazio che ha dichiarato illegittima l'attribuzione di crediti formativi a coloro che frequentano l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane. Il Tribunale Amministrativo non soltanto è entrato a gamba tesa in una materia regolata da un Trattato internazionale (il Concordato tra Stato e Chiesa), su cui hanno competenza, secondo la Costituzione, il parlamento, il governo e il presidente della Repubblica, ma ha anche «condito» la sua decisione con considerazioni di carattere ideologico inaccettabili per un paese la cui storia e la cui identità non possono essere né studiate né comprese senza il riferimento alle sue radici cristiane. Si legge nelle motivazioni della sentenza: «Un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico, proprio per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede stessa». E ancora: «L'attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato italiano non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica».
Il grossolano errore commesso dai giudici del TAR è stato quello di far coincidere, nella sentenza, il significato della parola «religione» con quello della parola «fede», usandole in sostanza come sinonimi intercambiabili. Se è vero che non può esistere, in uno Stato laico e liberale, la valutazione scolastica della fede dell'individuo, non è altrettanto vero che contrastano con la laicità e con la libertà del singolo lo studio e l'approfondimento delle radici spirituali e morali (cioè religiose) del popolo a cui egli appartiene. Anzi, si potrebbe persino affermare che senza la conoscenza di tali radici - nella loro componente intrinsecamente religiosa - ne perderebbe in qualità il complesso dell'offerta formativa della scuola, perché sarebbe come affrontare lo studio di una lingua senza conoscerne l'«abc», il vocabolario e la grammatica. A differenza della fede, che comporta la fiducia convinta in una dottrina e l'adesione consapevole a un complesso di verità, di dogmi, di riti, la religione esprime innanzitutto la tensione primordiale dell'uomo - di qualsiasi uomo - verso l'Infinito, alla ricerca di una spiegazione totale della realtà e della vita (del nascere come del morire). Se quindi è vero che non tutti gli uomini hanno fede, è altrettanto vero che tutti gli uomini, in tutti i tempi e a tutte le latitudini, vengono al mondo con un desiderio incommensurabile di ricercare, dentro e oltre le apparenze, un significato esaustivo dell'esistenza, un punto di fuga che renda possibile la comprensione del gran disegno della realtà. Questo punto di fuga è ciò che - per riprendere le parole di Tommaso D'Aquino - «tutti chiamano Dio».
Dunque, se la fede può rappresentare l'approdo del cammino religioso del singolo, e resta per questo un fatto personale (più che privato), la religione in sé considerata è un elemento ontologico che accomuna tutti: proprio per questo suo aspetto essa è stata, sin dagli albori della storia dell'uomo, un fattore di sviluppo civile, sociale e culturale (le prime espressioni culturali di cui abbiamo notizia sono con tutta evidenza manifestazioni del sentimento religioso dei popoli primitivi). In questo senso, si può pacificamente affermare che senza religione non è data alcuna forma di civiltà e che, quindi, ignorare la storia religiosa e i fondamenti religiosi (spirituali e morali) del proprio popolo non può in alcun modo rappresentare un punto di merito per uno studente: l'offerta formativa non può perciò prescindere dalla religione. Ciò non vuol dire imporre a tutti una «fede» che per sua stessa natura non può essere imposta, ma significa compiere un gesto di alto valore educativo; un gesto doveroso, da parte di una nazione, nei confronti di se stessa - del suo passato, del suo presente e del suo futuro: non ci può essere autentico sviluppo se non abbeverandosi alla fonte da cui ha preso forma e consistenza una storia di popolo.
Per tutti questi motivi è davvero incomprensibile, come ha scritto in una nota il ministro Gelmini commentando la sentenza del TAR e annunciando il ricorso al Consiglio di Stato, che «solo la religione cattolica non debba contribuire alla valutazione globale dello studente tra tutte le attività che danno luogo a crediti formativi». Essa, infatti «esprime un patrimonio di storia, di valori e di tradizioni talmente importante che la sua unicità deve essere riconosciuta e tutelata».
Gianteo Bordero
martedì 18 agosto 2009
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